Atlante 1_rovesciare i troni

di Bruno Roberti

 

Francis Ford Coppola, Apocalipse Now (USA, 1979)

Sul tavolo di Kurtz, immerso nel buio caldo e insidioso dove alligna l’assassinio rituale del Re del Bosco, ci sono Il Ramo d’oro di Frazer, From Ritual to Romance di Jessie L. Weston, The Waste Land di Eliot. Testi collegati in una genealogia dove è lo sprigionamento fertile, sparagmatico, dionisiaco a dischiudere le possibilità di rinascita della Terra Desolata. Ma nel film di Coppola l’allucinazione entro cui si accende il fuoco nella notte e si abbatte con l’ascia il Toro si incarna nel cinema come battaglia con l’ombra in cui gli angeli dell’Apocalisse possono solo presiedere alla deflagrazione cosmica e dove il “capo” e la “coda” coincidono come l’emblema di un tempo serpentino, uroborico, in cui si è insieme uccisore e ucciso, eroe e traditore, sovrano e suddito, inizio e fine, tutto e nulla.

Sergej Ejzenstejn, Il vecchio e il nuovo (o La linea generale – Staroye i novoye) (URSS, 1929)

La potenza della scrematrice è captata magicamente dalla donna, da Marfa, che è una contadina ma anche una immagine ninfica (il suo strapparsi un lembo di veste, il suo accordarsi al funzionamento erotico della macchina, che viene antropomorfizzata dal montaggio e quindi esorcizzata nella sua estraneità). Il passaggio dal vecchio al nuovo avviene contemporaneamente al sacrificio/assunzione tra le stelle del dio bovino. Solo una ninfa (che presiede come antica potenza alla successione dei re e ne sacralizza ombra e parvenza, come avviene per i primi re etruschi) assume e pratica lo scoronamento che scioglie e pone lo sguardo in rivolta su un nuovo sentiero senza ordinamento e scatenante propulsione a zampillo, a rizoma.

 

 

Roberto Rossellini, La presa di potere di Luigi XIV (Italia, 1966)

Una anatomia del cerimoniale di potere, della processionalità delle sue insegne e delle sue esposizioni, del meccanismo automaticamente splendente, delle implicazioni con cui la sovranità si diffonde, irraggia, esercita ogni illusione e ogni verità, esaurisce tutti i possibili riconoscimenti in un abbagliante Sole che non può (non) vedersi al di fuori dell’accecamento di cui comporta la dissimulazione disciplinata. Tutto questo è capace di filmare Rossellini ma soprattutto, e qui sta la genialità, in questa cristallina proliferazione di gesti, posture, espressioni che restituiscono come in diretta la “ri-presa” di “un” potere, tutto conduce alla presentazione nuda di una vita e di una singolarità nel mondo che ci appare solo quando senza corona e senza potere, sul letto dove si nasce e su muore, la vita dell’uomo si espone alla ri-presa.

 

 

John Huston, L’uomo che volle farsi re (USA, 1975)

I due avventurieri inglesi del racconto di Kipling cui si ispira il film è come se compissero un destino iniziatico nel loro viaggio nelle terre asiatiche percorse secoli fa da un re che paradossalmente “non volle” essere re, Alessandro Magno, uomo in cui la potenza divina di Dioniso si incarnò e che mise in discussione ogni appartenenza, perfino i limiti dell’ecumene, che fece saltare tutti i confini in un movimento di estensione secondo cui è l’arborescente divenire-oltre che si realizza in un perfetto rovesciamento del mondo e del dominio, della liberazione di forze e del loro tracciarsi e indirizzarsi. Nel film questa impresa si compie e si dissolve insieme. Essere re, e re-semidio, proprio malgrado, trovarsi come su una scacchiera a occupare il posto del re, significa attraversare un disinganno e guardare, come in uno specchio enigmatico, se stessi in una borgesiana “ombra delle mosse”. E “vedersi vedere” nel proprio essere un uomo.