di Bruno Roberti
“Talvolta il Vecchio Stolto del carnevale è un Re che ha beatamente perduto il senno,
così che la monarchia si capovolge in anarchia”.
(Pier Pietro Brunelli, Carnevale e Psiche)
Nel cinema di Rossellini c’è una tensione biunivoca che permette di ripensare il rapporto tra “reale” nel cinema e sua “messinscena”, tra credenza nel mondo e smascheramento dell’illusione. Tutto diventa messinscena e mondo insieme, vita e finzione inscindibili. Un discorso del potere e delle sue maschere è pur presente nei film rosselliniani. Pensare la maschera in termini di immagine, per Rossellini (anzitutto in La prise du povoir de Louis XIV) significa certo mettere in questione il mondo, tagliare la Storia secondo una rivelazione dei meccanismi di mascheratura del potere, ma significa soprattutto assimilare la teatralità e la maschera a una verità della mise-en-scène, cioè a uno “splendore e miseria” del cinema che permette, proprio attraverso la presa diretta e la presa di coscienza dell’illusione, di redimere il reale, il mondo, riscattarli in una reinvenzione che ne muove le potenze (anche le potenze del sogno).
C’è una forma archetipale del rovesciamento, del capovolgimento carnevalesco, dello scoronamento che contrappone, come in uno specchio, la stoltezza del potere e la saggezza del popolo, il Buffone-Re al Re-Buffone. Ma il contrasto è anche tra etica ed estetica, forma e sostanza, idealismo e concretezza, laddove ogni Rivoluzione sfocia, come ribaltamento del potere e messa a morte rituale del sovrano, in un Carnevale, che è pur sempre una festa dei morti in cui il fantasmatico riso può tramutarsi in instaurazione del Terrore. Per cui anche la lotta per la libertà può essere messa “in commedia”, salvo illuminarne la serietà in rapporto allo spirito individuativo, al sano cinismo del popolo che mentre sa bene che tutto è vanità, possiede (in particolare il popolo del carnevale romano o degli antichi Saturnali latini) quella sovranità racchiusa nella concretissima “folle saggezza” che, mentre se la ride, può spingersi anche fino al sacrificio, continuando purtuttavia nel suo sberleffo.
Ciò si esprime nella vox Populi, in quel “crisma” della Voce che parodizza il Corpo del potere, il corpus sovrano, ad esempio nella statua di Pasquino, anonima e quasi sacrale – che mentre sferza con la berlina dell’irrisione ogni potere, ne “vaticina” anche le sorti – e parla attraverso le pasquinate contro infamie di governo e preti, eppure “vanifica” anche la spinta rivoluzionaria, enucleandone la tremenda astrazione sempre sul punto di rovesciarsi in carnevalizzazione. In una sceneggiatura inedita, e sorprendente, di quello che doveva, nel 1974, diventare un film di Rossellini: Pulcinella, o le passioni, le corna e la morte, scritta con Jean Gruault, il dialoghista del suo Louis XIV (dove già la cerimonia del potere si dava come maschera e si risolveva in una vanitas, nella grande scena della morte del Re Sole). Protagonista è quel Michelangelo Fracanzani, che eredita la maschera di Pulcinella dal vecchio Calcese e compie un ‘viaggio in Italia’ ‘al contrario’ (da Sud a Nord ) alla volta di Parigi, partendo dalla Napoli di Masaniello e di Salvator Rosa.
Il rapporto tra mondo e teatro tra credenza e illusione viene messo in forma in modo inaspettato dalla sceneggiatura di Rossellini e Gruault. Rossellini e Gruault pensano certo a un precedente : il Renoir di La carrozza d’oro (1952), laddove la Commedia dell’Arte (e l’eredità molieriana) indicava la relazione di rovesciamento, di specchio, di scoronamento tra vita e teatro, tra potere costituito (il Vicerè) e potenza della finzione (gli attori). Il film di Renoir fu una avventura produttiva italiana. Il racconto di Merimeè su cui si basa (La carrozza del Santissimo Sacramento) avrebbe voluto girarlo Visconti. Con la Magnani nelle vesti della comica dell’Arte irrompe nel film la cifra italiana, e il ‘dialogo’ con Rossellini.
L’amore conteso tra il Vicerè, il Cavaliere e il Torero è anche una sfida il potere, e si svolge, dall’inizio, sulla scena: è il teatro con le sue maschere a smascherare il potere, quando Colombina/Magnani canta di spalle al pubblico per sottolineare lo sgarbo fatto ai comici dall’occupare la scena da parte del Toreador Ramon (“El pubblico no se de la cara Colombina, se de qua” “Grazie tante Sior Pantalone, credevo fosse di moda voltare le spalle!”). Il gioco del ribaltamento e dei “doppi fondi”, l’uso della profondità di campo come sfondamento e rovesciamento tra vita e teatro, l’insistenza sugli specchi e sulle cornici, il teatro nel teatro, sono motivi molto presenti anche nella sceneggiatura inedita di Rossellini. L’incipit di Renoir mostra un sipario che si alza, la macchina da presa avanza e si entra nel palazzo del Vicerè, come su un palcoscenico. Gli arredi, che richiamano lo spazio di una scena si rivelano vere finestre che affacciano all’aperto su un cortile. Si passa dal teatro al cinema come da un palcoscenico a un set; e anche alla fine la Magnani resta sola nel Palazzo che con un carrello all’indietro è inscritto in un piccolo palcoscenico.
Il vero diventa maschera e viceversa, in accordo con le maschere della Commedia dell’Arte che fanno da collegamento tra finzione e reale. Nel presentare le maschere Renoir privilegia la maschera di Arlecchino, chiamata “anima del teatro”: l’Arlecchino flautista che appare in scena rimanda a Picasso, come a Severini, Prampolini, Depero, il gruppo di bambini della compagnia caprioleggia per le strade in veste di Arlecchino. La maschera scivola continuamente nella vita. La stessa Carrozza d’Oro è vista come teatro: l’uscita del Vicerè dalla carrozza è accolta da applausi. Tutto diventa messinscena e mondo insieme, vita e finzione inscindibili. L’esergo della sceneggiatura di Rossellini sulla maschera di Pulcinella recita (con una citazione da Novalis): Le monde se fait reve et le reve se fait monde.
È la reversibilità tra mondo e scena, tra mondo e illusione, infine tra mondo e cinema che interessa Rossellini, e non (come per Fellini) per risucchiare il mondo dentro il suo sogno, dando luogo a un mondo sognato, ma per sprigionare e metabolizzare il sogno, il cinema, la messinscena nel fuori di una presa-sul-mondo, e mostrare come anche quando la vita irrompe (e viene fagocitata) nel/dal teatro (e sul set, nel cinema), noi assistiamo a un movimento di redenzione, a una epifania che non inscrive nella vita e nel mondo la finzione, ma sprigiona il potenziale di illusione che è già da sempre del mondo, come il potenziale di mondo e di vita che risiede, è insito, nel lavoro di costruzione del set, nella messinscena.
Il discorso del potere, il dispositivo specchiante, il “posto vuoto” del soggetto, il punto di vista del pittore e il fuoricampo, il “posto” del sovrano, il discorso di verità e il doppiofondo della menzogna, l’“io mento” come enunciazione di un paradosso di visione, richiama la riflessione di Michel Foucault – ma anche l’invito lacaniano a “riprendere” Las Meninas di Velazquez e la “messa in gioco” foucaultiana del dipinto.