di Peppe Nanni
Biblioteca Feltrinelli, Milano, piazza Duomo, febbraio 2017.
(io, cliente) – … e, per cortesia, può cercarmi Che fare? di Lenin… possibilmente l’edizione NUE, con prefazione di Vittorio Strada.
(la commessa) – È una biografia, un romanzo o un manuale?
(io, perplesso) – È un saggio…
(la commessa) – Ah, saggistica…
E, innocente, digita nel database il titolo: “Che fare di Lenin?”.
Ma la commessa di quella che era una delle più importanti librerie d’Italia non è sola. Sono in molti, in realtà, a non sapere come governare l’imbarazzante incombenza di questo centesimo anniversario. La rivoluzione d’ottobre incarna infatti l’insorgenza certificata della Rivoluzione, di tutte le rivoluzioni accadute nella storia d’Occidente. Sulla Rivoluzione per antonomasia si è abbattuta un’ondata denigratoria che si è risolta in una serie di ‘celebrazioni rovesciate’, tutte mirate a sottolineare l’esito totalitario, ovvero a ricordare, e calcolare in macabre contabilità, l’innegabile ‘costo umano’ dell’esperimento sovietico. E con esso il prezzo in sangue che comporterebbe qualsiasi rivoluzione.
E allora – prendiamo sul serio, con tutta la serietà che merita, la domanda che pareva surreale della inconsapevole commessa, ma che rivela improvvisamente tutta la sua radicalità. Che fare – oggi – di Lenin? Se non vogliamo semplicemente demonizzare o imbalsamare, una prima traccia di risposta sta nella formula proposta anni fa da Mario Tronti come “l’altra strada impraticata e sola”: dichiararsi eredi del fallimento della rivoluzione e, nello stesso tempo, eredi della rivoluzione.
Ci troviamo oggi tirati da due pulsioni antitetiche, contemporaneamente presenti: da un lato il riconoscimento che il sangue versato in quella stagione rivoluzionaria ci provoca un moto di rifiuto e ripulsa; dall’altro la seduzione dell’immagine dell’assalto al Palazzo d’Inverno, non solo come metafora ma come fatto che ha segnato irrevocabilmente il percorso storico dell’Occidente e ha dimostrato la possibilità del successo di un attacco frontale al potere.
I significati implicati da questa doppia pulsione vanno approfonditi su entrambi i lati e assunti in una nuova prospettiva. Sul primo corno, il costo del sangue e delle repressioni terroristiche di stato non va condannato solo in nome di una logora, vaga e generica, coscienza umanitaria, ma alla luce della sensibilità libertaria guadagnata grazie all’ondata rivoluzionaria del ’68. Anche perché sangue e morti che vengono imputati alla rivoluzione sono, a guardare più in profondità, il frutto della persistenza operativa di residui statuali autocratici (ovvero controrivoluzionari: è un dato storico che Il Gulag ha ingoiato anche l’intera generazione dei protagonisti della rivoluzione del ‘17 e con loro la memoria immaginale e la dicibilità stessa di quell’Evento – la voce della rivoluzione.
Sul secondo corno, raccogliere l’eredità della rivoluzione significa assumere produttivamente che il movimento della storia procede per rotture, nuove inizi, esperienze di statu nascenti; tesaurizzare l’esperienza che un varco nel continuum storico si è aperto ed è stato frequentato: un varco non solo immaginativo ma anch’esso iscritto nella fattualità storica. Un’esperienza politica aurorale che legittima il desiderio di una trasformazione radicale della società e delle istituzioni e l’innesto dell’impresa di inventare un mondo nuovo.
Riconoscersi eredi del fallimento della rivoluzione e, nello stesso tempo, eredi della rivoluzione significa che la frattura che il ‘sentimento della rivoluzione’ esteticamente provoca non va composta ma va abitata. Le due pulsioni non vanno rimediate e neutralizzate: creano nella conoscenza e nei sensi un campo magnetico che va mantenuto attivo perché produce energia; alimentano la costruzione di una risposta politica complessiva all’altezza del nostro tempo; rendono visibile il nodo che tiene insieme una intenzione progettuale alta e un controllo senza sconti delle conseguenze dell’agire politico. Senza cedere alla tentazione di retoriche irrealistiche, o peggio nostalgiche, o di scorciatoie e sintesi impazienti
“Che fare di Lenin?”. Poniamoci l’interrogativo e abitiamo la contraddizione, nella convinzione che il gesto rivoluzionario consiste, soprattutto, nel porre domande, vere avvincenti coinvolgenti.