Editoriale

della Redazione

 

Quel che importa non è tanto il concetto profondamente romano
che ogni nuova fondazione è una rifondazione e una ricostruzione,
quanto l’idea, diversa anche se in qualche misura connessa,
che gli uomini sono preparati per il compito, in verità paradossale
dal punto di vista logico, di istituire un nuovo inizio
perché essi stessi sono nuovi inizi e perciò iniziatori:
la capacità stessa di iniziare è radicata nella natalità.
Hannah Arendt

“manifesto di ottobre” – una rivista nata per dare una risposta al desiderio di connettere vita contemplativa e vita activa: la riflessione intellettuale e filosofica al progetto politico.

Politica e cultura crescono insieme o insieme declinano. L’attuale impasse della politica corrisponde all’aporia in cui si è auto-confinato il pensiero intellettuale, italiano ed europeo. Senza cielo politico non c’è cultura, ma soltanto erudizione e retorica. Senza riflessione filosofica e strumentazione culturale l’intervento politico è ­– come appare oggi – vano e sgangherato. Il pensiero, lasciato da solo, si arrocca nell’elitismo sprezzante; la politica, lasciata da sola, perde rotta, mèta, governo. Servono le stelle, e bisogna conoscerle bene – conoscerle e misurarle – per fare il punto sulla navigazione.

Un rinnovato impegno politico e intellettuale si offre oggi come occasione di rinascita civile, che coinvolge nel segno della responsabilità e del coraggio chi lavora con il pensiero e l’invenzione, con l’intelligenza e la fantasia. Ristabilire una stretta relazione tra sapere e potere è l’unica via che può innescare un rinascimento dell’etica e dell’estetica pubblica.

“manifesto di ottobre” non propone commenti o approfondimenti: si propone come uno strumento critico per giocare con il presente, senza chiamarsi fuori, per dispetto o per accidia, e senza subire il ricatto della sedicente realtà.

Prima di tutto, la responsabilità. Ogni epoca ha il tempo – il passato, il presente, il futuro – che si merita. Siamo noi, in prima persona, responsabili della qualità del nostro tempo: l’alternativa è addomesticare idee ed energie in un confortevole cinismo misoneista. Siamo responsabili dello stile del mondo in cui viviamo, sul quale possiamo – e dobbiamo – lasciare un segno positivo di trasformazione.

E, come ci insegna Hannah Arendt, possiamo farlo paradossalmente perché – meravigliosamente, semplicemente perché – “siamo nati”. La citazione che poniamo come ex ergo e talismano per questa impresa ci ricorda che ogni uomo può essere iniziatore perché, segnato dalla consapevolezza della sua propria nascita, è egli stesso un “nuovo inizio”.

Manifesto di Ottobre è un inizio. L’inizio è il luogo di una sosta particolare, dove l’intenzione di rottura e di discontinuità fa i conti con gli errori di ‘altri inizi’ precedenti che hanno fallito, dove la differenza deve scrollarsi di dosso l’insidia ricorrente della ripetizione, del Passato che subito si insinua intaccando il genoma del nuovo. Iniziare è sempre una lotta su due fronti, contro ‘lo stato di cose presente’ e contro se stessi, contro l’habitus di irriflesse consuetudini mentali che contrabbandano il blocco dell’invarianza oltre la frontiera della trasformazione – solo illusoriamente superata da un desiderio troppo impaziente di sintesi – e che ci consegnano alla semplificazione forzata, allo schematismo gerarchizzante, alla violenza omologante dell’identità ideologica. Ma come mantenere e rendere produttiva l’irrinunciabile pluralità dei profili soggettivi coinvolti nella rinascita di uno spazio pubblico? E come assumere i criteri di efficacia necessari per un’azione comune senza ‘disciplinare’ la sagoma affilata di ogni espressività individuale?

È una domanda presso la quale occorre sostare, abitando con pazienza la linea che ci separa dal Novecento. I materiali che compongono questo primo numero della rivista sono allineati, per una precisa scelta formale, come un florilegio che consente al lettore attivo di congegnarli secondo la propria intenzione, senza che un suggerimento redazionale pretenda di indicare didascalicamente un unico senso di connessione, più o meno dialettico.

Che fare di Lenin? registra, già nel titolo, la situazione esistenziale in cui ci troviamo, sospesi tra il riconoscimento del naufragio delle forme politiche del secolo scorso – la figura-partito in primis – e il persistente desiderio di una dimensione inaugurale e aurorale della Politica, intesa come reciproca promessa di una vita più ‘luminosa’, che solo la res publica può assicurare. È proprio una politica per la res publica quella che Giacomo Marramao ci invita a concepire, nel superamento della compaginazione statuale che ha così a lungo presidiato la sovranità: azzardare il reincantamento della politica nel punto esatto di incontro tra l’azione sequenziale che processa il quotidiano e il momento straordinario e sospensivo di irruzione del Novum. La scommessa di un Doppio Movimento, contro le soluzioni semplicistiche e unilaterali che hanno fatto naufragare il Novecento. Luciano Canfora nella prefazione alla nuova edizione del suo Pensare la rivoluzione russa ci chiama autorevolmente a reagire contro un riduzionismo storiografico che legge le vicende rivoluzionarie in chiave giudiziaria: schiacciando grandi e complessi eventi nella dimensione della cronaca nera, questa tendenza revisionista consegna il divenire storico al campo di una farsesca insensatezza e si preclude qualsiasi intelligibilità del passato. Monica Centanni legge tre figure della regalità messe in scena da Eschilo, Shakespeare e Pirandello alla luce dell’opera di Kantorowicz: la scena teatrale è come un teatro anatomico in cui si esibisce il referto autoptico della sovranità, ripercorrendo le scansioni del progressivo disfarsi dei due corpi del Re, quello fisico e quello mistico. Il che non ci esime dal fare ancora i conti con i residui spettrali del potere sovrano che emanano una luce sinistra dai perduranti segreti del potere, gli arcana imperii. Da parte sua, Franco Cardini nel suo contributo ricapitola le ragioni fondative che hanno storicamente legittimato il mito, più che regale, imperiale, a partire dalle civiltà antiche: è Alessandro Magno, che unisce nella sua persona la natura greca e il profilo orientale della sovranità che fornisce una misura di grandezza prima per Augusto e poi per i grandi imperatori cristiani. Flavia Perina trasferisce il tema Rivoluzione e Sovranità nel mondo fantasy, leggendo nella saga del Trono di Spade una traccia da seguire anche nella nostra disincantata società: “non sarà il potere coronato né i molti che gli danno la scalata a risolvere le cose, ma l’alleanza tra intelligenze e progetti senza insegne, senza una specifica patria, senza nemmeno definite ambizioni” Anche Bruno Roberti, nel suo percorso attraverso il cinema di Rossellini, descrive il rapporto sempre reversibile tra realtà e finzione: la funzione paradossale della fictio cinematografica è quella di smascherare il potere, di mostrare che il Re è nudo. È invece vestito, in abiti borghesi, il Re di Spagna, colto da Alessandro Tonin nell’atto di minacciare i separatisti catalani, parlando dalla televisione. Un re travestito da presidente, senza corona, che però enfatizza la presenza dello stemma di Castiglia sulla bandiera alle sue spalle: un arcaismo che vanifica la strategia mimetica.

Inauguriamo anche la sezione ‘Atlante’ della rivista, che contiene, tra l’altro, alcuni spezzoni del finale di Apocalypse Now. Esempio del disfacimento del corpo regale in chiave dionisiaca: i Doors cantano, per il sovrano, This is the end. Per noi, invece, un nuovo inizio?