di Flavia Perina
Nella serie tv “Il Trono di Spade” – forse la migliore mai scritta sul tema del potere – un mondo intero frana spinto dall’entropia di ambizioni modeste, di piccoli intriganti. Le prese dei castelli si susseguono, così come la loro riconquista, in una generale perdita di senso che, levati i draghi e le barriere di ghiaccio, ci racconta i nostri giorni meglio di un’inchiesta giornalistica. Il suo successo planetario ci dice che, pur senza saperne nulla, pur senza avere le chiavi per decrittare il reale, milioni di persone si specchiano in quella cosa lì. “La capiscono”. Ne intuiscono il rapporto con le loro vite. Eccolo l’Occidente degli anni Duemila senza rivoluzioni: un gioco del Trono senza popolo, senza marinai che si ammutinano, senza risultato, senza vincitori certi, dove la crudeltà è sempre più grande e più fine a se stessa.
Il leader di Podemos Pablo Iglesias attribuisce il successo di Got al tema di fondo, la vicenda “di chi comanda e di chi obbedisce”. Insieme con altri dirigenti del partito nel 2016 ha pubblicato un saggio (Vincere o morire: lezioni politiche nel Trono di Spade) costellato di citazioni di Machiavelli, Gramsci, Lenin. Il Trono di Spade ci affascina, dice, perché narra un’epoca di pace che si sgretola in un’era di paura e ingiustizia, e l’Occidente si riconosce in questa narrazione alla quale partecipa “politicamente”, tifando per i protagonisti che tentano disperatamente di riportare ordine e lealtà nel caos. Sara Martin e Valentina Re, ricercatrici italiane e autrici di un studio su Got per Mimesis, danno un’altra traccia. La forza del racconto è nella sua “anomalia emotiva”, negli shock che determina, ad esempio, con la morte inaspettata di alcuni personaggi molto amati e col catartico assassinio dei più odiati, che ci consente di liberare la nostra ferocia nascosta come forse vorremmo nella vita reale e non possiamo.
Cercare qui, nel Trono di Spade, il senso di due parole – rivoluzione e sovranità – di cui si abusa da trent’anni non è quindi un fuor d’opera. Queste parole sono state appiccicate a tutto, dalle sollevazioni arabe alle promesse di dentiere gratis, da banali scalate ai congressi di partito all’ingresso in Parlamento di un tot di ignoranti di successo, e nella cronaca quotidiana hanno perso il loro senso. Ma di quel senso c’è bisogno. Non credo sia casuale che il Genius Loci occidentale abbia abbandonato altri luoghi dell’anima – Macondo, con i suoi guerriglieri iconici e perduti, o la Terra di Mezzo, così ordinata nella divisione del bene e del male – per riconoscersi all’improvviso in questa nuova patria letteraria e piangere per i suoi re morti lacrime vere, e preoccuparsi per le sue giovani regine, ed elaborare strategie per i suoi eserciti. Finito il mito delle rivoluzioni col fucile, dissolta l’idea di un Aragorn capace di curare le ferite, rimane solo un ordinario caos nel quale “i nostri” sono difficili da distinguere e spesso palesemente senza speranza. Però continuiamo a tifare per loro.
Dunque Westeros, il continente narrato dal Trono di Spade, è il luogo dove si misura lo strappo tra la nostra età dell’innocenza – gli anni nei quali l’immaginario collettivo dormiva sulle amache dei Buendia o nei giardini degli Hobbit – e i tempi nuovi del post-Novecento. Un continente terrorizzato dall’arrivo dell’inverno (un inverno che può durare decenni). Squassato da guerre incomprensibili. Crudele, dove i bambini buoni muoiono sul rogo e le dame gentili sguinzagliano enormi cani corsi per sbranare i loro violentatori. A Westeros il popolo è servitù della gleba. I re sono morti, la sovranità è un’ipotesi costantemente perdente. Il potere è volatile e inefficace. I nemici molto spesso occulti. La speranza di una soluzione positiva – anzi di una rivoluzione – è affidata a un gruppo disparato di border-line: Dany, la regina dei draghi, dama di gran lignaggio ma anche ex mendicante ed esule venduta per denaro; Tyrion, nano ripudiato da suo padre; John Snow, figlio bastardo spedito nella legione straniera dell’epoca per levarselo di torno. La sceneggiatura suggerisce insomma che non sarà il potere coronato né i molti che gli danno la scalata a risolvere le cose, ma l’alleanza tra intelligenze e progetti senza insegne, senza una specifica patria, senza nemmeno definite ambizioni.
Ovviamente, è una traccia che ci piace. Vorremmo seguirla anche nella realtà. Ha un fascino l’idea che “nella vicenda di chi comanda e di chi obbedisce” ci sia qualcuno che non fa nessuna delle due cose, e questa gente si incontri e si allei, e l’alleanza funzioni. Un fascino che diventa più assertivo in questo 2017, che ha obbligato un po’ tutti a fare i conti con la parola proibita del centenario – rivoluzione – e ad interrogarsi sul suo possibile significato oltre il Novecento. Sappiamo che ognuno di noi ha avuto il suo Palazzo d’Inverno personale, ognuno ha aspettato a modo suo il colpo di cannone dell’Aurora, e il momento dell’irresponsabile coraggio contro qualcosa o qualcuno che ci aveva stufato, la fuga in avanti, il vaffanculo allo stimato Kerenskij, per poi festeggiare una notte intera – Vittoria! – e ricordarselo fino alla fine del mondo dicendosi “Che notte!”. Sappiamo che la rivoluzione è uno stato dell’anima, è il cuore che trema al botto dell’artiglieria (un botto a salve, si scoprì dopo, ma è la stessa cosa), è quello che già immagina il nuovo amore realizzato senza vederne le rughe imminenti, le certe delusioni, i difetti che verranno. Sappiamo che è metafora del momento perfetto, il momento che manca da troppo tempo nel nostro immaginario. Ma potrebbe ripetersi, può risuccedere? Questa è la domanda. Nel caso, sarà riconoscibile, soprattutto per chi l’ha già assaggiata, chi ne conosce il sapore e il suono. È un suono molto forte. Un colpo di cannone. Solo gli scemi lo scambieranno per il rumore di uno scappamento.