La regalità sacra e i fondamenti metastorici del potere

di Franco Cardini

Non esiste nessuna legge, nessuna ‘convenzione’, nessun ‘contratto sociale’ in grado di fondare sul serio la legittimità del potere, alla cui base c’è l’auctoritas come necessaria legittimazione di qualunque potestas. Il fondamento del potere è divino, non umano. Trascendente, non immanente. Metastorico, non storico. O comunque, è così che esso è stato sentito e interpretato in modi differenti da tutte le civiltà umane.

‘Le mani del re sono mani di guaritore’: l’affermazione tratta da Il Signore degli Anelli di John Ronald Reuel Tolkien, nel quale la figura di Aragorn richiama al perfetto archetipo della regalità sacra, rinvia al celebre studio di Marc Bloch I re taumaturghi, e a uno dei problemi forse fondamentali dell’intero genere umano sotto il profilo storico-antropologico.

I re non muoiono mai. Ernst H, Kantorowicz in I due corpi del re e Sergio Bertelli in Il corpo del re ci hanno insegnato che, quando il ‘corpo naturale‘ del re, quello fisico e mortale, perde il suo soffio vitale, il ‘corpo politico’, che è tanto invisibile quanto incorruttibile, sopravvive. Quando il sovrano scompare e il suo corpo non si trova né si conosce il luogo della sua sepoltura, si diffonde la fama ch’egli non sia mai morto e che debba tornare. Tornano sempre, i re: debbono tornare. E, tornando, ristabiliscono la giustizia, restaurano i costumi, premiano i buoni e i fedeli, puniscono i malvagi e gli infedeli, inaugurano infine il regno della pace e dell’ordine. È sempre stato così, dai tempi del nostos di Ulisse ad Itaca. Modello mitico del ‘ritorno del Re’ è la Seconda Venuta Apocalittica del Cristo.

È sempre stato così: ma è accaduto di rado. E, quando accade, il ritorno del re è tragico, o tragicomico, o penoso – come quello di Napoleone dall’Elba. Eppure la Cristianità è vissuta lunghi secoli nell’attesa del ‘ritorno del Re’, che avrebbe dovuto compiersi in un futuro prossimo e al tempo stesso alla fine dei tempi. È il mito dell’Imperatore dei Giorni Ultimi, nato sulla base di apocrifi scritturali d’origine greco-orientale, che si è perpetuato anche in area islamico-sciita con la figura dell’ ‘Imam Velato’ e in Occidente si è incarnato volta per volta in sovrani differenti: Carlo Magno, il Barbarossa, Federico II di Svevia, Montezuma, Tupac-Amaru Inca, lo czar Dimitri, Giacomo II Stuart, il delfino Luigi XVII, lo czar Nicola II, più di recente il Negus Hailé Selassié nel gruppo religioso afro-giamaicano Rasta (che trae appunto il nome da quello dell’ultimo imperatore etiopico prima dell’intronizzazione, Ras Tafari) divenuto famoso nel mondo grazie alla musica di Bob Marley.

È importante – per quanto non sia strettamente indispensabile – che il re candidato al ritorno escatologico e apocalittico non sia con sicurezza morto. È importante che si sia misteriosamente sottratto ai suoi sudditi, al pari di Romolo, o che comunque della sua scomparsa siano poco chiare, che non esista una tomba nella quale i suoi resti siano con certezza custoditi. In tal modo egli entra più facilmente nella schiera di coloro dei quali non si può accertare con sicurezza la morte, anzi di quelli che – come si dice di Giovanni Evangelista – non sono mai morti: gli eletti di ciascuno dei quali si può dire vivit et non vivit perché hanno ricevuto la grazia se non dell’eternità quanto meno dell’indefinita longevità, in modo da poter sopravvivere fino all’Apocalisse – magari immersi in un lungo sonno, come si dice del Barbarossa – ed essere i testimoni estremi e i fedeli battistrada del Secondo Ritorno del Messia. In questo modo le loro figure si intrecciano con quella, tremenda, dell’Anticristo: e ne divengono ora le possibili prefigurazioni (Artù, il Barbarossa stesso, Federico II di Svevia), ora al contrario i suoi antagonisti destinati all’estremo martirio, i garanti col loro regale sangue del Ritorno di Colui che, solo, è Vero Re.

Questo messianismo imperiale, in parte eredità precristiana in parte accessorio e conseguenza del grande messianismo apocalittico, conosce nella Cristianità orientale e occidentale, cattolica e riformata, ecclesiale e settaria – e, laicizzato, in molte utopie post-cristiane – un’impressionante pluralità di forme ed è capace dei più inattesi avatara. Teologie quintomonarchiste e idee relative ai ‘Terzi Imperi’ che dovrebbero durare ‘mille anni’ – tale, appunto, il dritte Reich, fatidicamente preconizzato durante la repubblica di Weimar – si ricollegano a questo immenso universo retto dal mito ma che sfocia molto spesso nel suo contrario e nella sua tragica emula, l’utopia. Nella cultura portoghese – che naturalmente ha trovato un’eco anche nel Brasile contemporaneo attratto dall’idea del ritorno messianico degli imperatori della casa di Braganza – questa costellazione di temi, di leggende, di attese, si è coagulata attorno al cosiddetto ‘sebastianismo’ che ha trovato un banditore d’eccezione in Fernando Pessoa e nel suo Mensagem. Tale il titolo d’una raccolta di poemi nei quali il grande letterato portoghese configura l’idea di un impero di pace e di giustizia universali nei quali lo spirito dominerà la materia: nonostante la parola significhi com’è noto ‘messaggio’, Pessoa la riempie di un senso più profondo e pregnante interpretandola come il motto ermetico del motto Mens agi[tat] [mol]em, “è il pensiero che muove la massa della materia”: un acrostico di sapore alchemico, che invita a risalire alle scaturigini esoterico-rosacruciane del suo pensiero.

Il sebastianismo è in sintesi la variabile portoghese del mito dell’Imperatore dei Giorni Ultimi: senonché, dal momento che i miti politici per sopravvivere hanno bisogno di ricorrenti radicamenti nella storia, in questo caso l’incarnazione del signore escatologico ha avuto come protagonista don Sebastiano, che occupò il trono dal 1557 al 1578 e che scomparve nella battaglia di Al-Ksar el-Kebir in Marocco il 4 agosto del 1578 lasciando dietro di sé una luna scia di leggende e di speranze.

“I re sono una necessità. Probabilmente un riflesso della costituzione stessa dell’anima”, ha sentenziato Lawrence Durrell: alla luce di tale intuizione, ripresa da Vladimir Volkoff, è l’intera antropologia della regalità – alla quale Luc de Heusch ha dedicato alcuni studi molto importanti relativi al mondo africano – a dover essere riconsiderata in molteplici direzioni: non esclusa la psicanalitica, come hanno richiamato gli studi indianistici di Heinrich Zimmer non estranei alla lezione di Carl Gustav Jung.

Dopo i fondamentali studi di Georges Dumézil, la funzione regale è apparsa ‘contesa’ tra le due funzioni, quella magico-sacerdotale e quella eroico-guerriera, appunto perché tali due funzioni partecipano del delicato còmpito della fondazione del diritto e dell’amministrazione della giustizia. La regalità sacra è posta da Mircea Eliade al centro della sua complessa meditazione sull’equilibrio cosmico del quale il sovrano in molteplici civiltà appare garante, sul rapporto fra cielo e terra rispetto al quale il sovrano è ‘ponte’, mediatore, e sulla ierofania. Le sue conclusioni sono state confermate a livello propriamente antropologico da Gilbert Durand, che ha studiato la dimensione monarchica nell’ambito dei simboli ascensionali sottolineando la connessione tra divinità uranica, regalità e paternità, da cui deriva il forte rapporto – vivo nelle tradizioni indoeuropee come in quelle semitiche, in quelle egiziane e in quelle uraloaltaiche a loro volta connesse con le culture amerinde – tra le dimensioni del ‘Dio-Padre’ uranico e del ‘Re-Padre’.

Il punto è quindi stabilire se il ‘Re-Padre’ è aspetto del ‘Dio-Padre’ o suo vicario-rappresentante-immagine. Le due forme archetipiche della monarchia sacra, l’egizia e la babilonese, forniscono al riguardo le due rispettive Urgestalten del re-dio e del re-sacerdote. La riflessione eliadiana si rivela fondamentale per lo storico proprio in rapporto al concetto cristiano di regalità, in particolare alla teologia imperiale sviluppata sia nell’impero bizantino sia nell’Europa occidentale a partire dall’età ottoniana. È evidente che basileis e imperatores cristiani svilupparono il loro concetto di regalità sacra alla luce del modello costituito dalla regalità del Cristo. Ma le scaturigini della dimensione imperiale cristiana – garantite appunto dal Cristo come sovrano cosmico, Signore dello spazio e del tempo, Kosmokrator e Chronokrator – stavano essenzialmente nelle tradizioni egizia e persiana, entrambe rivisitate attraverso la ridefinizione di Alessandro il Grande ma avvicinate in modo apparentemente diretto (in realtà la mediazione alessandrina era comunque presente) prima da Cesare e da Augusto nell’Egitto tolemaico e poi dai Soldatenkaiser del III secolo che avevano elaborato le dimensioni sia dei re-sacerdoti siriaci dediti ai culti solari sia dei Gran Re arsacidi. Ma con la cristianizzazione dell’impero a questi modelli si era andato aggiungendo con forza quello davidico-salomonico desunto dal Nuovo Testamento e provvisto d’una sua forte carica messianica. L’imperatore cristiano si era, da allora, presentato come vicario e figura del Vero Re, il Cristo; il sovrano terreno era typus Christi, ma il carattere sacramentale della sua incoronazione – specie dopo l’adattamento del rituale veterotestamentario dell’unzione – ne faceva dei ‘Cristi del Signore’. Questa complessa dinamica si riflette nei cerimoniali: sia in quello imperiale romano pagano, sia in quello cristiano che ne costituì la continuazione ma anche la riforma profonda.

Non intendiamo qui affatto proporre un accordo tra le visioni per un certo verso contrastanti di Eliade e di Sabbatucci quanto al rapporto tra sovranità e regalità: né tra due funzioni sacrali del ‘sovrastare’ e del ‘reggere’. Ci pare tuttavia che proprio nell’Incarnazione, e quindi nella giustificazione cristiana d’una regalità sacra come simbolica e vicariale rispetto alla regalità del Cristo, esse possano convergere. Presentandosi nell’Incarnazione – secondo le tre funzioni adombrate nel racconto evangelico dei doni dei Magi – come Vero Dio, Vero Re e Vero Uomo, il Cristo si propone insieme come sovrano e come reggitore, come garante d’un ordine che scende dall’alto e di una norma cosmica che presiede alle cose e le ordina.

Anche in Occidente la regalità sacra – specie nella sua direzione imperiale romano-germanica: ma anche in quelle regie francese, franco-normanna, italo-normanna, iberica – ha proceduto nella ferma fedeltà alla dimensione cristica e cristomimetica del sovrano: lo si vede bene sia nelle affermazioni che presentano l’autocoscienza del sovrano nei confronti della sua missione, sia nelle espressioni omiletiche e propagandistiche, sia negli scritti dei teorici dell’impero, sia nei cerimoniali d’incoronazione, sia negli stessi oggetti simbolici della regalità a cominciare dalle corone. È sviante collegare in qualche modo questa cultura della regalità esclusivamente al Medioevo: essa continua molto al di là dei limiti convenzionali di esso, investendo fortemente lo stesso secolo XVI non solo in area cattolica e asburgica, ma anche protestante. Almeno finché, nel processo di secolarizzazione, la Cristianità occidentale non cessa gradualmente – fra XVII e XVIII secolo, con quella che Paul Hazard ha definito la ‘grande crisi di coscienza della civiltà occidentale’ – di essere e di considerarsi tale, per lasciare spazio, appunto, all’emergere dell’idea di Europa-Occidente come dimensione politico-culturale. I trattati di Westfalia appaiono al riguardo un momento incoativo del quale tener conto, purché ad essi non si attribuisca un valore irreversibilmente deterministico.

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