Una nuova edizione di Pensare la Rivoluzione russa, Bari 2017*
di Luciano Canfora
Quando scrissi questo libro l’Unione Sovietica era finita da pochi anni. Fukuyama aveva decretato la fine della storia. Boris El’cin spadroneggiava a Mosca, dopo aver bombardato il parlamento nel 1993, sorretto da un intero staff statunitense che gli aveva consentito di vincere in modo platealmente fraudolento le elezioni per la presidenza. Gli archivi della ex Unione Sovietica venivano svenduti o rapinati. La storia della Unione Sovietica veniva ormai raccontata come un cumulo di crimini, mentre la storia intollerabilmente laudativa ed eroicizzante del periodo sovietico veniva cancellata. Si riproduceva dunque un ciclo che già era stato sperimentato a proposito della Rivoluzione francese. Quest’ultima, molto lentamente riscattata e riscritta nel corso del secolo XIX, fino alla riconsacrazione avvenuta alla scadenza del primo centenario, costituiva un modello di andirivieni storiografico destinato a ripetersi.
Indugiamo ancora brevemente sulla vicenda francese per ricordare che il recupero completo delle varie fasi della rivoluzione, compresa quella robespierrista, richiese ulteriore tempo dopo il 1889: ci volle la guerra del ’14, che fu vissuta come una replica delle guerre rivoluzionarie e napoleoniche contro gli imperi centrali; ci volle l’esplosione della Rivoluzione russa del ’17 che diede il via ad una storiografia filogiacobina e filobolscevica i cui nomi più noti, ma non gli unici, sono quelli di Albert Mathiez e Albert Soboul. Ma la storia non finì lì. Man mano che si manifestava nel corso del secolo XX la crisi dell’esperienza sovietica, la storiografia, non solo francese, rimetteva in discussione la propria rivoluzione.
I primi segnali si manifestarono nella seconda metà degli anni Sessanta, ma l’opera più significativa in tal senso fu certamente quella di François Furet, di cui conviene qui ricordare per lo meno il bel volume intitolato Penser la révolution française, tradotto prontamente in italiano presso Laterza col titolo Critica alla Rivoluzione francese. Furet si richiamava già nella prima pagina all’ammonimento di Edgar Quinet nel volumetto del 1867 intitolato Critique de la Révolution ed era molto polemico nei confronti dei tutori della «sacralità dell’89». Quinet ricorreva alla brillante formula incitante ad abbandonare il reato di “oltraggio alla rivoluzione”.
A seguito della pubblicazione in Italia del volumetto furettiano, Pensare la rivoluzione francese, tentai una riflessione parallela sulle due rivoluzioni in un saggiuolo del 1980 intitolato Analogia e storia. Ma la storia fu, come spesso succede, in fine velocior: con una rapidità imprevedibile, gli anni Ottanta si conclusero con il tracollo dell’intero sistema sorto intorno alla Unione Sovietica coincidente con il secondo centenario della Rivoluzione francese, stimolo fortissimo per accentuare il revisionismo rispetto ad entrambe. Il medesimo Furet, nonostante i suoi meriti come studioso delle vicende francesi, si avventurò nella scrittura di un gigantesco pamphlet rigorosamente anticomunista e antisovietico intitolato Le passé d’une illusion, prontamente tradotto in italiano. Oggi ben pochi si ricordano di quel libro, che fece scalpore anche negli ambienti meglio disposti ad accoglierlo e ad apprezzarlo, per aver l’autore esteso la sua critica iconoclastica anche all’antifascismo europeo, accusato, abbastanza arbitrariamente, di essere stato “l’utile idiota di Stalin”.
Nel frattempo si era posto al centro dell’attenzione politico-pubblicistico-televisiva il troppo celebre Libro nero del comunismo, diretto dall’ex comunista Courtois, lanciato in Italia da Mondadori, nonché da Forza Italia e da Berlusconi in persona, il quale ne distribuì copie ai convegnisti di uno dei pochissimi congressi del suo partito. L’opera era molto frettolosa e ansiosa di attribuire al movimento comunista internazionale crimini difficilmente attribuibili ad esso: sempre calcolati all’ingrosso in milioni di morti, ivi compresi i milioni di morti russi durante la Seconda guerra mondiale, difficilmente imputabili al governo sovietico, ma più probabilmente a quello tedesco. La malafede dei contributori a quell’opera collettiva si spingeva fino ai limiti della comicità: ad esempio sul conto dei crimini del comunismo venivano posti anche i moltissimi caduti nella guerra civile angolana (fine anni Settanta / inizio anni Ottanta), provocata contro il legittimo governo del Mpla dalla guerriglia pagata dalla Cia e raccolta sotto la sigla Unita, diretta dal losco figuro Savimbi.
Ma tralasciamo ormai di polemizzare con un libro defunto. Ciò che invece conviene notare, dal punto di vista storiografico, è che da allora si sprigionò una serie di ‘libri neri’ suscitati o da mimesi o da intento polemico. Il ‘libro nero’ mondadoriano apparve nel 1998; nello stesso anno Tropea riprese, dall’editore francese Le temps des cérises, il Libro nero del capitalismo; a ruota nello stesso anno Piemme imbastì un Libro nero dell’Inquisizione.
Nel 2005 l’editore Fazi sfoderò il Libro nero della guerra; nel 2007 un importantissimo editore cattolico francese, Édition du Cerf, sfoderò finalmente (era nell’aria da un bel po’ di tempo) il Libro nero della Rivoluzione francese e nel 2014 un piccolo editore italiano, 21 editore, scaraventò sul dibattito storiografico un importantissimo Libro nero dell’Impero britannico, piccolo segmento della dolorosissima storia del colonialismo.
Ma la storia non si fa coi ‘libri neri’. Il suo compito è cercare di capire e possibilmente di spiegare: lo stesso proliferare di ‘libri neri’ contrapposti dimostra la vanità di tale avvicinamento allo studio della storia. Se oggi, a distanza di un quarto di secolo, dalla fine dell’Unione Sovietica è opportuno «pensare la Rivoluzione russa», il punto di vista da cui porsi è duplice: cosa ha significato per il mondo e cosa ha significato per il suo Paese. Sorta con il proposito di dare l’avvio alla rivoluzione socialista nell’Occidente industrializzato, ben presto, già agli inizi degli anni Venti, assunse consapevolmente un ruolo del tutto diverso, quello di detonatore contagioso e fecondo del processo di decolonizzazione. Processo che si sviluppò dopo la Prima e, ancor più, dopo la Seconda guerra mondiale.
Per quel che riguarda la Russia, oggi possiamo ben osservare che, sin dalla prima fase della direzione staliniana, la rivoluzione diventò un fatto nazionale. E come fattore decisivo della trasformazione molecolare della Russia zarista in Paese moderno e industrializzato, la Rivoluzione d’Ottobre non solo ha lasciato traccia ma è stata la levatrice della Russia che oggi ridiventa protagonista della storia mondiale.
*Riproduciamo, per gentile concessione dell’autore e dell’editore, la Nota introduttiva alla nuova edizione di Luciano Canfora, Pensare la Rivoluzione russa, Stilo Editrice, Bari 2017, pp. 7-12.