Arcana imperii. Lettura di Ernst Kantorowicz, I misteri dello Stato

di Monica Centanni

[…] Riccardo spoglia se stesso, poi più non riconosce la propria immagine nello specchio che chiama davanti a sé, per guardarsi; più non si riconosce nello sguardo della regina. Da solo si era spogliato:

“Depongo dal cuore l’orgoglio dell’imperio sovrano, /con le mie stesse lacrime lavo l’olio della consacrazione, / con le mie stesse mani do via la corona, con la mia stessa lingua rinnego il mio sacro stato [ … l./ Rinnego ogni pompa e maestà”. (Riccardo II, IV, 1)

C’è una serie di parole che apparentemente sembrano voler negare alla radice ogni forma di comunicazione: segreto, con il suo plurale segreti, segretezza, e poi segretare, segretario, segreta, e così via. Eppure questa apparente negazione dell’eloquio contiene in sé un nocciolo di senso e un’intenzione comunicativa forte.

In realtà, il segreto non rappresenta una forma di mero nascondimento, ma è piuttosto una modalità molto particolare e privilegiata di comunicazione (e in quanto tale ci interessa). La sua stessa etimologia, del resto ci svela questa caratteristica della parola: essa deriva dal latino secernere, che vuol dire “separare”, “dividere”, e quindi rendere accessibile soltanto a pochi. Tenere in segreto alcune informazioni o alcune forme di sapere in specifici contesti storici e culturali, non solo significa preservarne l’integrità di significato, ma implica anche l’intenzione di custodire, modulandone opportunamente le modalità della trasmissione, l’equilibrio complessivo della “luce di senso” che esse contengono. Non a caso il domenicano spagnolo Domingo de Soto (1494-1560) intitolò la sua opera esemplare, pubblicata a Brescia nel 1582, De ratione tegendi et detegendi secretum, volendo proprio significare che il segreto va coperto o svelato a seconda del caso e dell’opportunità, in base ad un equilibrio non semplice da individuare e che richiede l’esperienza del teologo e dell’uomo politico.

Nel dramma di Shakespeare il re, in scena fin dall’inizio, aveva iniziato prima il suo pianto, fin da quando aveva fatto appello al nome di re, in difesa del suo corpo minacciato dall’usurpatore. Nel Riccardo II il corpo regale è bensì destituito della sua maestà, ma per essere subito sostituito da un nuovo corpo: Bolingbroke, ora Enrico, il nuovo re. E alla fine il corpo del vecchio re ucciso, viene portato al nuovo re, perché ne dica il compianto: così Exton, il sicario: “This dead king to the living king l’Il bear” (Riccardo II, V, 6).

Enrico, il nuovo re che ha ricomposto su di sé il corpo regale deposto da Riccardo, può ora cantare il lutto per la morte del suo predecessore. Nel finale del Riccardo II in scena sono due corpi di re: il corpo morto – e quindi mortale di Riccardo e, insieme, il corpo del re vivente di Bolingbroke-Enrico, ora re e quindi anche immortale. Due figure fisicamente distinte: il secondo dice la morte del primo; il re predispone il corteo funebre per la morte del re:

“Venite, piangete con me per ciò che io piango /e indossate subito il cupo nero del lutto [ .. l. /Farò un viaggio in Terrasanta per lavare la mia mano colpevole di questo sangue. / Seguitemi nel mesto corteo, rendete onore al cordoglio, / piangendo dietro questa bara prematura”.(Riccardo II, V, 6).

Il finale della tragedia shakespeariana che Kantorowicz prende a paradigma, consiste in un corteo funebre, proprio come il finale della tragedia greca sulla dissolvenza del potere regale: con una significativa differenza. Alla fine del Riccardo II infatti è Enrico, il nuovo re – ora il re – che guida il lutto del vecchio re morto. Solo il re può essere ministro del funerale della regalità ed a sé Enrico avoca, insieme alla responsabilità dell’assassinio, anche l’officio delle esequie del suo predecessore, da lui stesso spodestato. Il re vivente è figurativamente scisso dal re morto: sono concretamente – teatralmente – due personae e quindi l’uno può cantare il lutto dell’altro.

Nel finale dei Persiani di Eschilo, è invece Serse, Serse stesso, che guida il suo proprio corteo funebre. Serse è uno: come Riccardo egli ha ucciso – per errore, per Ate, per colpa del daimon, per sua hybris – la sua stessa maestà; come Riccardo ha stracciato le vesti regali che erano la sua forma, che disegnavano la sua figura. Egli, come Riccardo, è morto alla regalità; ma egli è anche Bolingbroke Enrico, è anche, ancora, il re. Come Bolingbroke-Enrico, Serse tiene in sé le immagini dei due corpi. Nell’espressione scenica della schisi del corpo mortale e vulnerabile (nudo, graffiato, degradato) delle sue vesti stracciate – carne spogliata della sua forma – nudo ora attende però una nuova veste che reintegrerà la sua maestà: lacerazione esibita sulla scena, che però tiene le tracce residuali della regalità – i brandelli delle vesti – simbolicamente aderenti al corpo degradato.