di Giacomo Marramao
Lo stato dello stato è un problema molto attuale: la crisi dello stato è un longseller che inizia già agli inizi del ‘900 e arriva fino ai giorni nostri. Marea di titoli sulla crisi dello stato. Lo stato torna a essere un punto interrogativo per due ordini di ragioni: la global governance non esiste, per lo meno non esiste nella forma di una nuova dimensione istituzionale. Grazie alla nostra esperienza degli ultimi 50 anni abbiamo capito che la vicenda del capitalismo moderno, e anche del capitalismo finanziario contemporaneo dà luogo a un pendolarismo costante tra il principio di mondialità e il principio di territorialità: i due principi si alternano o a volte coabitano conflittualmente all’interno della stessa epoca, della stessa fase. Così è stato a cavallo tra 800 e 900; prima ancora il manifesto del partito comunista che è tutto in chiave di una analisi globalista del capitalismo. Poi però è il ritorno allo stato tra gli anni ’20 e gli anni ’30 del 900: il New Deal, i totalitarismi, l’inizio del Welfare state, il secondo dopoguerra. Una fase mondialista e una territorialista: dobbiamo vedere le cose nel tempo lungo per capire cosa oggi sta accadendo.
Una cosa è certa: lo stato-nazione sovrano, lo stato a una certa dimensione, non è più in grado di far fronte alle sfide globali ma neanche di far fronte alle sfide locali: troppo piccolo per le sfide globali, troppo grande per le sfide locali. Questo pone un problema molto serio: ma il fatto che lo stato sia preso nella morsa tra il locale e il globale, il venir meno della sovranità non vuol dire che abbia annullato il momento della territorialità. Non dobbiamo concepire la territorialità politica unicamente nei termini di “stato”. Occorre una analisi differenziata: lo stato ‘Italia’, gli stati europei, non sono gli Stati Uniti d’America, non sono lo Stato della Cina, non sono il Brasile […].
Passione del presente: e proprio perché al presente ci si rivolge, a questo presente in cui siamo immersi, non si tratta di proporre un sistema del presente, né un modo per tesaurizzare il proprio pensiero a dispetto della dissipatezza di questo presente – come del resto di ogni presente –, né un modo per dominarlo e costringerlo nel paradigma del “razionalismo occidentale”. È piuttosto il tentativo di proporre un nuovo lessico della modernità/mondo – costruito a partire dal presupposto della molteplicità irriducibile dei punti di vista e delle prospettive pluricentriche di quella modernità/mondo che si apre dal disfarsi del modello della modernità nazione. Un viaggio che è esperienza ( Er – fahren ) attraverso tappe senza un approdo definitivo – che si concluda con il lemma Morte che significa proprio, coniugando al presente l’impresentabile, rimettere all’esperienza anche l’inesperibile e il definitivo della nostra cultura.
The time is out of joint , dice Amleto; “il tempo è fuori asse, è uscito dai cardini”; con le stesse parole oggi è il presente stesso che si rivolge a noi: “Dannata sorte”, proseguiva il povero Amleto, “essere nato per rimetterlo in sesto”. Come Amleto, anche noi viviamo una vita fuori-asse rispetto al presente, costantemente protesi rispetto al futuro o reclinati verso il passato. Ma comunque incapaci di “incardinarci” nel presente. Impotenti ad assumere quella decisione che sola consente di “rimettere in sesto” il tempo.
Cosa significa “incardinarsi” nel presente, rispondere “presente” al proprio tempo? Significa, forse, fare del presente il proprio tema, rappresentare il presente? Certamente no. È il termine passione a essere decisivo e a determinare, piuttosto che la sua rappresentazione, la presenza del presente. Una rappresentazione del presente che si ex-pone a patire positivamente il proprio tempo. Ogni parola-chiave di questo lessico è in sé divisa, tagliata, scissa per accogliere – patire, ancora una volta – la complessità, la conflittualità, la molteplicità, la plurivocità del presente: Passaggi, Dilemmi, Costellazioni, Confini, Endiadi.
Non soltanto, dunque, lemmi declinati al plurale, ma costitutivamente e intimamente plurali, fin dal loro etimo e dalla loro semantica. La loro valenza, inoltre, non è meramente descrittiva, bensì concerne il contenuto stesso delle questioni. Per esempio: tra mondo e Occidente c’è passaggio; quella tra globale e locale è una costellazione; la coppia ragione-identità è un dilemma. A essere praticata è una logica della “sintesi disgiuntiva”, che soggiace al concetto di universalismo della differenza, il vertice teorico di Passaggio a Occidente.
Una proposta che intende ricostruire l’universale non dall’idea del comune denominatore, ma dal criterio della differenza. Il principio ricostruttivo dell’universale può essere dunque inteso solo nei termini di una sintesi disgiuntiva: a partire dal presupposto della inalienabile e inappropriabile differenza singolare di ciascuno (e di ciascuna).
Se la passione è la tonalità emotiva del presente e se ogni identità è intrinsecamente plurale e dunque irriducibile all’unità della rappresentazione e non delegabile alla rappresentanza, la scrittura filosofica stessa diventa un’esperienza (Er-fahrung) non riconducibile a un io autoreferenziale, unitario e omogeneo, ma scaturisce da un io narrante. Se la narrazione – che nell’errare implicito nell’Er-fahrung trova ben più che una semplice assonanza – è una forma di argomentazione più comprensiva rispetto al canone occidentale del razionalismo, allora non può più essere emarginata dalla sfera pubblica. Ciò deve valere anche per la filosofia se vuole accedervi e non rinchiudersi nelle Accademie.
Una filosofia che ha passione del presente non può procrastinare a lungo un atteggiamento nostalgico o deferente nei confronti di quei concetti divenuti impermeabili alle temperie del proprio tempo, che non riescono a patirlo e a lasciarsene rinnovare. Tale passione filosofica comporta, pertanto, la messa in pratica della crisi irreversibile della rappresentazione/rappresentanza, uno dei concetti-cardine della filosofia e di un pensiero politico che, anche per questo motivo, fatica a “incardinarsi” nel presente.