Rivoluzione senza Stato

di Giacomo Marramao

Falsche Bewegung, falso movimento. Proiettiamo questa celebre espressione di Peter Handke sulla parabola della politica moderna, di cui stiamo ereditando e raccogliendo i frammenti. E vedremo aprirsi un doppio scenario. Rivoluzione senza Stato, da un lato. Stato senza rivoluzione, dall’altro.

Dilemma tragico: il cui retroscena, messo a nudo dai grandi analisti del potere, è un intero arco storico attraversato da una catena ininterrotta di endiadi. Politica e neutralizzazione, decisione e norma, potenza creatrice e potere amministrato, potere costituente e potere costituito. Un punto va qui tenuto fermo. Quando parliamo di Stato dobbiamo intendere una precisa forma storica, uno specifico assetto organizzativo di una comunità umana all’interno di un determinato territorio. E questa forma è quella incardinata nella nozione torreggiante di sovranità, quale si è imposta in una fase ben precisa della modernità attraverso un processo di espropriazione di beni, autonomie, diritti comunitari e garanzie di libertà preesistenti, dando luogo a un duplice monopolio: il “monopolio della violenza legittima” (per riprendere la classica definizione di Max Weber) e il monopolio delle fonti del diritto.

Pilastri concettuali imprescindibili di una traiettoria politico-giuridica moderna che da Hobbes ci conduce fino alla controversia novecentesca tra Schmitt e Kelsen intorno ai destini dello jus publicum europæum. E tuttavia sarebbe fuorviante operare una generalizzazione di quei presupposti idealtipici. Non solo perché oggi usurati e sottoposti a tensione, ma perché fungono da indicatori limitati e parziali della vicenda dell’Occidente moderno. Altra storia è quella dell’altra metà dell’Occidente, come si era reso conto lo stesso Schmitt ancor prima di metter mano al saggio su Terra e mare e alla fondamentale opera sul Nomos della Terra.

L’antitesi terra-mare, all’origine della lunga durata della “differenza britannica”, segnata dalla geniale decisione dell’Inghilterra elisabettiana di operare un distacco dal continente europeo affidando la propria egemonia all’elemento marittimo anziché a quello terraneo, e l’ulteriore sradicamento rappresentato nel XX secolo dalla scommessa degli Stati Uniti sull’elemento dell’aria come chiave della propria supremazia, ci pongono oggi dinanzi a una sfida che occorre riformulare in termini nuovi.

Ma cosa si intende quando si parla di “termini nuovi”? Il Novum (Hegel docet, con la sua trattazione della Neuzeit, del ‘Tempo Nuovo’) rimane pura retorica se non è in grado di ridefinire radicalmente il proprio passato. I termini nuovi rimandano a una scena influente, costitutiva del mondo moderno, squadernandone il senso. E anche questa scena, come sempre accade nello spazio di quel complesso di fenomeni ed eventi cui siamo soliti assegnare il nome di “Occidente”, trova la propria condensazione in una coppia opposizionale, in un’antitesi. Rectius, in un’endiadi: l’endiadi di Esilio e Regno, sradicamento e appartenenza. Nello scenario da cui trae origine l’Età Nuova, il Mondo Moderno, questa endiadi è costituita dalla coppia principio di mondialità/principio di territorialità.

Coppia costitutiva, dunque. Ma che solo dalla prospettiva del nostro presente può essere finalmente riconosciuta e riformulata: dal momento che ciò che è davvero nuovo è quello che consente di riconoscere la propria genesi donando ad essa i termini che le competono effettivamente, alla luce dei suoi risultati effettivi. Non dunque, per riprendere ancora il lessico hegeliano, come rilevazione della sua statica realtà fattuale (Realität) ma come comprensione della sua dinamica realtà effettuale (Wirklichkeit). La dinamica di sviluppo dei cinque secoli lunghi della modernità – dal Cinquecento al Novecento (anch’esso un secolo lungo, come ha giustamente osservato a suo tempo Giovanni Arrighi, non un “secolo breve” ma un secolo dal quale facciamo ancora fatica a congedarci dando finalmente il benvenuto al XXI secolo…) – è contrassegnato da una costante: la compresenza di principio di mondialità e principio di territorialità, cosmopolitismo e nazionalismo, logiche transfrontaliere di mercato e logiche sovraniste degli Stati, orizzontalità della lex mercatoria e verticalità del diritto pubblico.

Affermare ciò comporta una conseguenza di notevole portata. La modernità nasce globale, con l’evento dell’apertura dei mari e la conquista del Nuovo Mondo: ragion per cui la globalizzazione non è una “conseguenza della modernità” (come pensava Anthony Giddens) ma una sua premessa. Basta leggere, per farsi un’idea, le pagine del Manifesto di Marx e Engels in cui l’elogio della rottura delle frontiere prodotta dall’onda d’urto della rivoluzione capitalistica tratteggia uno scenario assai prossimo a quello dell’odierna mondializzazione, e in cui il dissolvimento delle tradizionali strutture cetuali e corporative adombra già le attuali forme di un potere immateriale e decorporeizzato: “Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria, tutto ciò che ha consistenza evapora”. E tuttavia, quella stessa epoca moderna che ha inghiottito le forme di vita nel vortice di un universale sradicamento è l’epoca che ha fabbricato la più micidiale e compatta macchina di dominio che la storia abbia mai conosciuto: lo Stato sovrano territorialmente chiuso.

Ma vi è di più. I due principi di mondialità e territorialità danno luogo a un’alternanza, con il prevalere ciclico ora delle logiche di mercato ora di quelle interventiste o protezioniste dello Stato, con le conseguenti misure anticicliche affidate ora alla “mano pubblica” dello Stato per fronteggiare le crisi inflazionistiche o sproporzionalistiche di mercato ora alla “mano invisibile” del mercato per sanare la “crisi fiscale” e l’indebitamento cui vanno incontro le politiche di Welfare. Eppure, malgrado il moltiplicarsi delle esperienze ricavabili dall’andamento ciclico, nessuno sembra accorgersi che l’intera dinamica è ingabbiata in una logica per cui, da un versante o dall’altro, il rimedio proposto reca in sé, in un circolo vizioso e perverso, la radice della malattia. Per altro verso, i sistemi misti che puntano a un equilibrio ottimale di Stato e mercato facendone coabitare le logiche, non si avvedono che quella coabitazione, rispondendo a principi avversi, è destinata nel breve o medio periodo a dar luogo a un conflitto aperto. La sola via per spezzare il circolo vizioso sarebbe allora quella di andare al di là del binomio Stato-mercato, ponendo al centro il tema di una politica in grado di fronteggiare le sfide del capitale globale senza ricadere nell’illusione del ripristino di una sovranità statale ormai declinante. E tuttavia….

E tuttavia il mondo in cui viviamo è tutt’altro che liquido. È, al contrario, un mondo in cui i coaguli di potere sono ancora più forti. Invano si cercherebbe però di trovarli negli Stati-nazione. Altra e più rilevante è la loro consistenza spaziale, che presenta alcune analogie con la Grossraumpolitik del periodo fra le due guerre. La dimensione politica, che oggi langue nel continente europeo che ne è stato la culla, sembra manifestarsi in Stati-continente come USA, Russia, Cina, India, Brasile. Realtà politiche ed economiche che prospettano visioni autonome e alternative del globale, radicate in una lunga storia che ha sedimentato nel corso dei millenni stratificazioni etico-culturali e religiose profonde. Il nuovo scenario che viene profilandosi nel XXI secolo all’insegna di una strutturale instabilità è quello di un conflitto di “universali” molto diverso da uno “scontro delle civiltà” nel senso di Huntington, ossessionato dall’antitesi tra Occidente e Islam. L’asse principale degli universali in conflitto è oggi rappresentato dalla tensione bipolare tra il modello individualistico-competitivo statunitense e il modello di una Cina neoconfuciana che, a dispetto delle previsioni di Max Weber, è riuscita a coniugare antindividualismo comunitario e turbocapitalismo produttivista.

Dalla posta in gioco di questa contesa l’Europa, incapace di trasformarsi in soggetto politico, è attualmente tagliata fuori. Eppure essa avrebbe nel bagaglio della sua tradizione gli elementi per porsi come un tertium tra i due modelli di mondializzazione: un tertium (non un’ennesima “terza via” di cui sono lastricati i cimiteri europei del XX secolo) capace di prospettare un’idea di individuo non solo competitivo ma solidale e un’idea di comunità non gerarchico-autoritaria ma generata dalla libertà e autonomia delle differenze singolari.

Si dovrebbe allora valorizzare politicamente la densità filosofica delle idee di ‘singolare’ e ‘comune’ sviluppate dal pensiero europeo. Occorrerebbe insistere sul nesso tra comunità e singolarità come differenza inappropriabile, sulla differenza come grammatica generativa del comune. Solo in quanto inappropriabili le differenze singolari possono entrare in rapporto. Rapporto va inteso qui in senso forte: non semplice de-concertazione ma fuoriuscita da qualunque logica pattizia del contratto-scambio e da ogni simbolica mercantile della reciprocità e del riconoscimento. Solo così il “comune” può apparire altro – ancora una volta, tertium datur, non terza via o sintesi conciliativa – rispetto alla coppia pubblico/privato del politico moderno.

Ma in quale spazialità europea una prospettiva del genere può “aver luogo”? Ho scritto da tempo – diversi anni prima che sul tema intervenisse il compianto Ulrich Beck – che l’Europa, fallimentare come logica di alleanza degli Stati membri, può avere invece un futuro come Europa delle città, come rete delle municipalità. Non solo perché le città d’Europa hanno fra loro molte più analogie di quante non le abbiano gli Stati-nazione europei. Ma perché nel corso della loro plurimillenaria storia le città europee hanno sperimentato una forma di integrazione orizzontale di molte memorie, religioni, culture differenti, di gran lunga più ricca e dinamica delle forme di integrazione verticale praticate dagli Stati-nazione. Le città-mondo dell’Europa sono state forgiate sulla base della differenza e non della logica identitaria.

Una delle più minacciose pandemie del mondo globale è rappresentata dalla proliferazione di conflitti segnati da quella che, sin dalla prima edizione (2003) di Passaggio a Occidente, ho definito “ossessione identitaria”. Le forme di conflitto che continuiamo a timbrare con termini generici come “fondamentalismo” o “terrorismo” nascono dal fatto che il capitale globale, con il suo Emporio, con l’universalizzazione della forma-merce, ha rimosso il problema dell’identità. Senonché le identità rimosse ritornano prima o poi sulla scena come identità reificate. Voi occidentali negate la nostra identità specifica. E allora vi rovesciamo addosso, per ritorsione, le identità ascrittive che avete confezionato per emarginarci: noi siamo islamici, siamo asiatici, siamo neri, e via dicendo.

Dobbiamo essere consapevoli di questo circolo perverso tra rimozione e reificazione dell’identità, se vogliamo imparare qualcosa dal fallimento dei due principali modelli di inclusione nella cittadinanza che abbiamo ereditato dalla modernità: quello statalista-assimilazionista repubblicano (il modello-République, con il suo universale neutro e indifferenziato) e quello imperial-multiculturalista (il modello-Londonistan, con il suo mosaico di differenze culturali irrelate e incomunicanti). La bancarotta di questi modelli è evidenziata dalla circostanza paradossale che, diametralmente opposti, essi danno luogo alle stesse forme di conflitto identitario. Ma ciò accade perché in entrambi i casi siamo in presenza di un vistoso deficit simbolico della politica che determina una crescente desertificazione della “sfera pubblica” tanto cara al mio amico Jürgen Habermas.

Se vogliamo invertire la tendenza che ha determinato questa deflazione simbolica dello spazio pubblico democratico e se, al tempo stesso, il “politico” che vogliamo costruire deve essere liberato dal feticcio dell’identità, dobbiamo partire da una lucida diagnosi di quello che sta accadendo, per andare al di là dell’età del disincanto: indispensabile all’epoca dei blocchi ideologici, ma ormai alibi per la riproduzione del cinismo politico imperante. Il compito del nostro tempo è reincantare la politica, fare della politica l’orizzonte di senso dell’agire individuale e collettivo, dentro il quale si possono ricostituire i soggetti del cambiamento e possono avvenire le trasformazioni. Il processo rivoluzionario – se ha ancora un senso oggi usare questa espressione – inteso come costituzione di soggetti in grado di autotrasformarsi e di “fare comunità”, non può avvenire che al di là e al di fuori dello Stato.

Questa idea della politica come processo, tuttavia, è una condizione necessaria ma tutt’altro che sufficiente. La sfida del futuro sarà quella di trovare un punto di intersezione tra due modelli di politica che, nella tradizione dell’Occidente, sono stati presentati come alternativi: la politica come praxis relazionale e la politica come intervento kairologico sul presente, sulla congiuntura. La politica come processo, come agire quotidiano, è certo essenziale, ma non risolve in sé l’intero ambito del “politico”. Possiamo elaborare un meraviglioso progetto e portare avanti un’esemplare prassi quotidiana. Ma tutto ciò rischia di restare vano se non viene calato nel tempo opportuno, se la sua messa in pratica avviene in modo intempestivo: per troppo indugiare o per troppa fretta. Per questo la dimensione della politica-processo deve trovare un punto di saldatura con quella della politica-evento.

In conclusione. La politica è soprattutto capacità di decifrare i segni dei tempi – τὰ σημεῖα τῶν καιρῶν – i seméia ton kairón, come si legge nel Vangelo di Matteo: di leggere il presente, di intervenire sul presente. Mi rendo conto di star parlando di un incontro che non ha ancora avuto luogo. Ma proprio perché non ha mai avuto luogo, l’incontro tra queste due forme della politica, la politica-prassi e la politica-evento, si impone oggi come sola via d’uscita dalla dilemmatica, amletica, condizione ipermoderna in cui ci accade di vivere. E nel cui falso movimento rischiamo di restare irretiti.

È difficile. È possibile.