di Monica Centanni
Il re ha un corpo doppio, come ci ha insegnato Ernst Kantorowicz: l’invisibile corpo mistico, eterno intatto impassibile, che coincide con i paramenti e gli attributi simbolici della regalità (le vesti, lo scettro, la corona, il trono), fa da rivestimento a un corpo fisico, che è la forma visibile della sovranità, destinato alla morte eppur tuttavia materia genetica e veicolo di trasmissione dell’incarnazione dei geni immortali del corpo simbolico del re.
“Il re è morto. Viva il re!”: i moderni stati nazionali sorgono, dopo la turbolenta stagione degli esperimenti repubblicani dei comuni e poi dei principati italiani, in continuità con la concezione della doppia facies della regalità, immutabile e immortale, ma incarnata in un corpo fisico che nasce e muore, passando corona, scettro e trono a un erede di sangue. Una concezione che si afferma, fin dal primo Medioevo, in risposta alla crisi dell’autorità imperiale e alla sua rifondazione concettuale cristiana. Abolita la necessità che legava l’imperatore, come tutte le figure istituzionali romane, al consenso del senatus populusque romanus, il princeps – che, dopo l’espulsione di Tarquinio, dalle origini repubblicane di Roma fino a Costantino mai né il senato né il popolo avrebbero tollerato di nominare con l’aborrito nome di ‘re’ – diventa, senza più alcuna remora ideologica, il basileus bizantino, e quindi il rex della nuova era dei sovrani barbarici. È il kosmokrator, figura del potere mondano che risponde e perfettamente corrisponde alla figura divina dell’unico Pantokrator, Cristo il christòs l’unto per eccellenza. La figura del monarca che monopolizza la decisione, e per ciò stesso dissipa la dimensione partecipativa e conflittuale della politica, è dunque una polarità da sempre attiva nella genealogia delle forme di potere a qualsiasi latitudine geografica, altezza cronologica e fase storica. Ed è una concezione che resiste e persiste sin dal Medioevo, fino alle attuali monarchie costituzionali.
Si tratta oggi – potrebbe dire qualcuno – di teste coronate senza ruolo né peso, neutralizzate dai contrappesi costituzionali e di fatto ridotte a un ruolo ‘rappresentativo’. Ma per l’appunto di rappresentazione stiamo parlando, e di quanto il fantasma della regalità, l’impronta spettrale di quell’auctoritas sancita non dal basso, ma dal superiore e indiscutibile volere divino, lasci tracce sensibili nella attuale genealogia e fisiologia del potere. Non si tratta, soltanto, della risibile e implausibile simbologia e iconografia delle vesti, dei costumi, degli intrighi dei ‘reali’, che tanto incontra il gusto kitsch degli strati più bassi del demos, ma anche di residui e di luminiscenti contaminazioni che arrivano a infettare dall’interno la costituzione e la vita dei regimi repubblicani. Si pensi soltanto, in Italia, al mantenimento tra le prerogative presidenziali della ‘grazia’; alla esclusiva impermeabilità del ‘segreti di stato’, fino alle trattive stato-mafia, inaugurate e condotte dalle massime cariche costituzionali, avvalendosi di poteri mai sottoposti a certificazione e verifica da parte del popolo, in quanto attingono a un livello di senso superiore e indicibile. Segreti di stato, servizi segreti, documenti secretati, omissis: nel segreto, racchiuso e serbato nell’opacità delle procedure, nel cinismo del modus operandi, nell’indicibilità degli esiti (spesso omicidi), si intravede l’ombra del potere del re.
Perdura dunque, seppur in forma lemurica e residuale, il riflesso auratico, l’abbaglio potente dello splendore del nome regale. Fino ai nostri giorni. È un fatto che l’Europa non si vergogna di esibire al mondo lo spettacolo di 11 monarchie costituzionali più una monarchia elettiva, ma teocratica e assoluta (ma anche quest’ultimo monarca come gli altri – più degli altri – regge le sorti del suo paese per conto di Dio): numeri che promuovono l’Europa al triste e tristo primato del continente con la più alta percentuale di regimi monarchici del globo.
Potente e persistente il fantasma del re. Eppure la tradizione classica nasce alla morte della regalità. Il pensiero politico nasce e rinasce in Occidente per riemersioni a distanza, intervallate da lunghe e profonde latenze, con la grande immagine del crollo della regalità. Un filo rosso lega, a distanza di secoli, tre grandi figure della fine – teatrale – del corpo del re: Riccardo II di William Shakespeare, Serse di Eschilo, Enrico IV di Luigi Pirandello.
Riccardo, che ha dissipato la dignità regale lasciandosi sedurre dai vizi del potere e dalle lusinghe degli adulatori, vinto dal nuovo re che rivendica nuovi diritti sul trono, spoglia se stesso fino a non più riconoscere la propria immagine nello specchio che richiama davanti a sé. Cerca di guardarsi ma più non si riconosce – non nello specchio e neppure nello sguardo della regina. Da solo si era spogliato:
“Depongo dal cuore l’orgoglio della sovrana autorità,
con le mie stesse lacrime lavo l’olio della consacrazione,
con le mie stesse mani do via la corona,
con la mia stessa lingua rinnego il mio sacro stato
[ …] Ecco, ho rinnegato ogni pompa e maestà”.
(Riccardo II, atto IV, scena 1)
Crown/crown: il nome della corona è lo stesso nome della testa del re che simbolicamente e allegoricamente è montata su un corpo politico fatto per essere comandato da un ‘capo’. Crown/crown, la corona è un teschio: il suo nome è lo stesso della testa destinata a cadere nella poena capitis, al re riservata.
Molti secoli prima, Eschilo aveva inventato il modo di rappresentare teatralmente il corpo del re come figura-simbolo della forma asiatica del potere, contro cui la Grecia rivendica la propria cifra di libertà. E quel corpo era stato portato in scena umiliato e svestito, nel modo più radicale e assoluto. Nei Persiani, è Serse, Serse stesso, che guida il suo proprio corteo funebre. Serse è solo, Serse è uno: per errore, per Ate, per colpa del daimon, per sua propria hybris – ha perduto la sua stessa maestà. Come farà il Riccardo di Shakespeare, anche Serse ha stracciato le vesti regali, di cui consisteva la sua forma, che disegnavano la sua figura. Nell’espressione scenica della schisi, il corpo mortale è vulnerabile – nudo, graffiato, degradato; il Gran Re non è altro che carne spogliata della sua forma; ma, nudo, ora attende una nuova veste (così promette la Regina) che dovrebbe reintegrare la sua maestà. I Persiani non mettono in scena soltanto la sconfitta del potente nemico che aveva invaso la Grecia ed era stato ricacciato a Oriente dal valore dei cittadini delle poleis elleniche; di scena è il crollo verticale della regalità, nella mortificazione del corpo e della veste. I brandelli e gli stracci che penzolano dal corpo del re, come tracce residuali dell’involucro mistico della regalità, sono simbolicamente e concretamente aderenti al corpo degradato.
Coro – Cosa ci resta, ora? […]
Serse – Vedi cosa resta della mia veste?
Coro – Vedo, ahimè, vedo!
Serse – Mi sono stracciato la veste alla vista di un tale disastro.
[…]
Coro – La nostra forza è piegata.
Serse – Sono nudo: non ho più il mio seguito! […]
Piangi, piangi il disastro […]
Grida, sì, rispondi al mio lamento! […]
Leva acuto il lamento: il tuo canto accompagni il mio canto!
(Eschilo, Persiani vv.1017-ss)
Serse compare in scena denudato a guidare il corteo funebre della regalità. E gli spettatori, ormai e per sempre, vedono che il re è nudo.
Nel dramma di Shakespeare, Riccardo da inizio già dal primo atto, in anticipo sul crollo finale, il suo proprio compianto – fin da quando aveva fatto appello al nome di re, in difesa del suo corpo minacciato dall’usurpatore. A sostituire il corpo regale di Riccardo che si autodestituisce dal trono, ci sarà presto un nuovo corpo: Bolingbroke, ora Enrico, sarà il nuovo re. E alla fine il corpo del vecchio re ucciso, viene portato al nuovo re, perché ne dica il compianto; così Exton, il sicario:
“This dead king to the living king l’Il bear”.
(Riccardo II, atto V, scena 6)
Enrico, il nuovo re che ha ricomposto su di sé il corpo regale deposto da Riccardo, Nel finale del Riccardo II in scena sono due corpi di re: il corpo morto – e quindi mortale – di Riccardo e, insieme, il corpo del re vivente di Bolingbroke-Enrico, ora re e quindi anche immortale. Due figure fisicamente distinte: il secondo dice la morte del primo. Il re predispone il corteo funebre per la morte del re:
“Venite, piangete con me per ciò che io piango
e indossate subito il cupo nero del lutto. […]
Farò un viaggio in Terrasanta per lavare
la mia mano colpevole di questo sangue.
Seguitemi nel mesto corteo, rendete onore al cordoglio,
piangendo dietro questa bara prematura”.
(Riccardo II, atto V, scena 6)
Il finale della tragedia shakespeariana sul collasso della regalità, che Kantorowicz prende a paradigma della figura del doppio corpo del re, consiste in un corteo funebre, proprio come il finale della tragedia greca sulla caduta e sulla dissolvenza del potere regale persiano si chiudeva con Serse alla guida del coro luttuoso. Alla fine del Riccardo II è Enrico, il nuovo re – ora il Re – che guida il lutto del vecchio re morto. Solo il re può essere ministro del funerale della regalità, e a sé Enrico avoca, insieme alla responsabilità dell’assassinio, anche l’officio delle esequie del suo predecessore, da lui stesso spodestato. Il re vivente è figurativamente scisso dal re morto: sono concretamente – teatralmente – due personae e quindi l’uno può cantare il lutto dell’altro.
Ma è Pirandello a portare in scena il degrado, ultimo e finale, della regalità: il suo Enrico IV dichiara il mascheramento e lo smascheramento della follia della regalità, rappresentata anche nelle statue di Enrico e di Matilde, ipostasi scenografiche della regalità, doppi dei personaggi già di per sé travestiti nei panni dei loro alias carnevaleschi.
Ma, sulla scena pirandelliana, persino i comprimari – figure teatrali dei sudditi – disconoscono platealmente la consistenza e l’autorevolezza della persona regale: sempre meno abbagliati, non concedono più credito alla favola dell’autoevidenziazione della legittimità di un potere ’assoluto‘, sciolto dalle leggi e politicamente irresponsabile. Anzi il re, proprio perché graziosamente irresponsabile, rivela tutto il carattere infantile della sua natura. È, dice Enrico di se stesso, una “caricatura evidente”.
E al folle che si finge re, all’uomo che per fingersi folle si traveste da re – e che così mostra che sempre e da sempre il re altro non è che persona ficta – sono affidate le parole definitive sulla fine del tempo della sovranità:
“Vi sembra una burla anche questa, che seguitano a farla i morti la vita? – Sì, qua è una burla: ma uscite di qua, nel mondo vivo. Spunta il giorno. Il tempo è davanti a voi. Un’alba. Questo giorno che ci sta davanti – voi dite – lo faremo noi! – Sì? Voi? E salutatemi tutte le tradizioni! Salutatemi tutti i costumi! Mettetevi a parlare! Ripetete tutte le parole che si sono sempre dette! Credete di vivere? Rimasticate la vita dei morti!”
(Luigi Pirandello, Enrico IV, atto II)